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14.10.09

MARTEDì 27 OTTOBRE BAR SARTEA (VI)- ORE 18:30


TANATOPARTY di Laura Liberale, Ed. Meridiano Zero
€10,00 - Pag. 128 -
ISBN 978-88-8237-202-6

Quando anche la morte diventa spettacolo
scrivere è uno strapparsi a morsi la carne viva
fino al cuore inesorabile delle cose.


Il tentacolare business del marketing ha raggiunto anche l’industria della morte. I più moderni ritrovati del settore funerario fanno bella mostra di sé all’inaugurazione di un’avanguardistica fiera, ostentati da provocanti hostess in latex nero.
L’apice dell’evento sarà la scandalosa poetessa Lucilla Pezzi, che negli anni ha fatto del proprio corpo uno strumento dell’arte più estrema, e l’ha destinato a diventare, dopo la morte, l’acme della sua carriera. Sotto luci martellanti e psichedeliche, si affolla, per l’ultima volta in attesa, il pubblico che l’ha seguita nelle sue performance di carne pulsante e poesia, quando calpestava nuda sul palco il nome borghese della sua famiglia, davanti agli occhi attoniti della sorella minore.
Laura Liberale si muove con eleganza tra obitori, necrofili e cadaveri, raccontando delle storie sotteranee che si intrecciano in una danza quasi orgiastica.
Fiabesca, lirica e crudele, questa nerissima rivisitazione dell’Alice di Carroll fa cadere il lettore in un buco freddo e magnetico, ammaliandolo con una prosa talmente intrisa di grottesca seduzione che in Tanatoparty la morte appare irriducibilmente bella.



BARDO THODOL - Il Libro tibetano dei morti - cornice di tutte le pagine del romanzo

Negli ultimi mesi la casa editrice Anima ha pubblicato, con un commento a cura di Mario Pincherle, il cosiddetto “Libro Tibetano dei Morti”. Il Bardo Thodol – questo il titolo originario – è uno dei tre grandi classici “funerari” di tutti i tempi, insieme al Papiro Egizio dei Morti e alla Divina Commedia di Dante Alighieri. “Bar-do” è l’espressione tibetana che indica la dimensione del passaggio tra due stati: la morte per i tibetani non è una condizione di stasi, ma una profonda sconvolgente trasformazione. L’ asceta si esercita già in vita a cogliere l’attimo che sta “tra” vita e aldilà; così come si esercita a cogliere il momento magico in cui la mente passa dalla veglia al sonno ovvero dal sogno del mattino – carico di premonizioni – al risveglio. Apprendere le fasi che succedono alla estinzione della esistenza terrena, imprimerle nella propria memoria di immagini per il tibetano vale come promessa di “liberazione”.

Il Bardo Thodol fu composto in sanscrito dal grande maestro Padma Sambhava, nell’VIII o nel IX secolo, per i buddhisti indiani e tibetani, ma fu da questi occultato e venne riportato alla luce solo nel XIV secolo dallo «scopritore di tesori» spirituali Karma Lingpa. Tra i primi a commentare in Italia questo sconcertante manuale di viaggio fu, negli anni Trenta, l’orientalista Giuseppe Tucci. Da allora in poi, e soprattutto negli ultimi anni, si sono succedute a ritmo frenetico riedizioni e commenti sempre nuovi.



9.10.09

NOBEL PER LA LETTERATURA



PREMIO NOBEL PER LA LETTERATURA 2009

VINCITORE

INTERNATIONAL IMPAC DUBLIN LITERARY AWARD
TRADOTTO IN 15 LINGUE


IL SECONDO LIBRO PIU' VENDUTO AL FESTIVALETTERATURA 2009 DI MANTOVA DOPO QUELLO DI LUIS SEPULVEDA



Ho scritto questo libro in ricordo dei miei amici rumeni uccisi sotto il regime di Ceausescu.


In una Romania degli anni Ottanta, quasi sospesa nel tempo, quattro giovani si ritrovano uniti dal suicidio di una ragazza di nome Lola. Da quel dolore e dalla consapevolezza di vivere in un Paese sottomesso alla dittatura, scaturisce un comune anelito di libertà che si nutre di letture e pensieri proibiti. Ben presto però i quattro devono fare i conti con l'onnipresenza del terrore. Agli interrogatori sistematici della polizia segreta, ai pedinamenti e agli atteggiamenti intimidatori segue la perdita del lavoro e, quand'anche si riesca a espatriare, ecco che le minacce proseguono e la morte ritorna sotto forma di misteriosi suicidi. In tutta questa oscurità, l'amicizia e l'amore sopravvivono.
Grazie a uno stile evocativo e immaginifico, Herta Müller - che come la protagonista del romanzo appartiene a una minoranza di lingua tedesca della Romania - riesce a trovare e far scaturire la poesia persino dal degrado materiale e spirituale di un'intera nazione.

Un libro singolare e meraviglioso
DIE ZEIT

"Scrivendo, non dimenticare la data e metti sempre un capello nella lettera, disse Edgar. Se dentro non c'è, vuol dire che la lettera è stata aperta. Singoli capelli, pensai tra me, sui treni, attraverso il paese. Un capello scuro di Edgar, uno chiaro, mio. Uno rosso di Kurt e Georg. Entrambi venivano soprannominati dagli studenti ragazzi d'oro. Per l'interrogatorio una frase con forbicine per unghie, disse Kurt, per la perquisizione una frase con scarpe, per il pedinamento una frase raffreddata. Dopo il titolo sempre un punto esclamativo, per una minaccia di morte solo una virgola".

UN ESTRATTO DAL LIBRO:

Georg disse: Avevo brutti voti a scuola. Mio padre disse:
Tempo fa si cuciva qualcosa per il direttore, preferibilmente
un paio di pantaloni. Il giorno seguente mia madre comprò
della stoffa grigia, un nastro per il bordo, un tessuto di lino
per le tasche e bottoni anche per la patta, visto che in negozio
c’erano solo cerniere rosse. Mio padre andò a scuola e chiamò
il direttore per prendere le misure. Aspettava già da tempo
quest’offerta, ci raggiunse subito.
Il direttore si piazzò accanto alla macchina da cucire. Mia
madre cominciò a misurare a partire dalle scarpe. Rilassate
bene le gambe, Signor Direttore, disse lei. Poi chiese: Quanto
lunghi, Un po’ più lunghi. Quanto larghi, Un po’ più stretti.
Volete dei risvolti, Signor Direttore. Dall’alto dei pantaloni
che lui indossava, chiese: E le tasche, Signor Direttore. All’altezza
della brachetta respirò profondamente e chiese: Da che
parte portate le chiavi della cantina, Signor Direttore. Lui disse:
Sempre sulla destra. E per la farmacia domestica, chiese
lei, volete dei bottoni o una cerniera. Cosa suggerite, chiese il
direttore. La cerniera è pratica, ma i bottoni danno più personalità,
disse mio padre. Il direttore disse: Bottoni.
DOPO il cinema andai dalla mia sarta. I suoi figli dormivano
già. Rimanemmo in cucina. Era la prima volta che andavo da
lei così tardi. Lei non si stupì. Mangiammo mele cotte al forno.
Lei fumò, ritraendo le guance come la regina degli scacchi
del nonno. Il mascalzone è ora in Canada, disse lei, ho incontrato
oggi sua sorella. Il marito della sarta era fuggito attraver-
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sando il Danubio, senza dirle una parola. Avevo raccontato
alla sarta della regina scura e di quella chiara e del barbiere
della compagnia del nonno, anche della nonna che pregava e
cantava. Anche delle piante più stupide del padre, dei dolori
alla schiena della madre.
Le tue nonne mi sembrano come le due regine degli scacchi
di tuo nonno, aveva detto lei. Quella che prega corrisponde
alla regina scura e quella che canta a quella chiara. Pregare
è sempre scuro.
Non la contraddissi, ma per me era il contrario.
LA NONNA che canta è quella scura. Lei sa che ognuno ha
una bestia del cuore. Lei sottrae il marito a un’altra donna.
Quest’uomo ama l’altra donna, non ama la nonna che canta.
Ma lei l’ottiene, perché lo vuole. Non lui, ma il suo campo. E
lo conserva. Lui non la ama, ma lei può dominarlo, nel
momento in cui gli dice: La bestia del cuore è un topo. Allora
era tutto vano, perché il campo, dopo la guerra, veniva
espropriato dallo Stato. Davanti a questo orrore, la nonna iniziò
a cantare.
LA SARTA non era consapevole di quanto poco sapesse sul
mio conto. Sembrava le bastasse che io fossi studentessa e non
portassi alcuna cintura.
Posai la chiave della casa estiva sul davanzale della finestra
della sarta e la dimenticai là. Pensai tra me, Una chiave non la
butta via nessuno.
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Edgar, Kurt e Georg consideravano inaffidabile la sarta. Io
dicevo: Siete diffidenti, perché le vostre madri sono sarte.
Dovetti promettere di non coinvolgere la sarta in nulla che ci
riguardasse. Edgar, Kurt e Georg non avrebbero accettato che
la chiave rimanesse sul davanzale della finestra. Come spesso
accadeva, quando erano diffidenti, avrebbero recitato la poesia:
Ognuno aveva un amico in ogni pezzetto di nuvola
così è infatti con gli amici dove il mondo è pieno di terrore
anche mia madre diceva è del tutto normale
non mettere in discussione gli amici
pensa a cose più serie.
Tornai allo studentato a piedi, a notte fonda. Lungo il sentiero
incontrai tre guardie, non volevano nulla da me. Erano occupati
con se stessi, mangiavano prugne verdi come di giorno.
Era così silenzioso in città, che li sentivo masticare. Avanzai
piano, in modo da non disturbarli mentre mangiavano. Avrei
preferito camminare in punta di piedi, ma se ne sarebbero
accorti. Camminando, diventai leggera come un’ombra, non
sarebbero mai riusciti ad afferrarmi. Le prugne verdi nelle
mani delle guardie erano nere come il cielo.
DUE settimane dopo andai di primo pomeriggio dalla sarta.
Lei disse subito: Hai dimenticato la tua chiave, di giorno l’ho
vista là sopra. Ho riflettuto tutto il giorno, era notte e non
potevi rientrare nello studentato.
Il metro era appeso intorno al collo della sarta. La chiave
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non è dello studentato, è della casa, dissi. E pensai tra me: Lei
porta il metro intorno al collo come una cintura.
Poi il tè bollì nella teiera. Disse: Vedo crescere i miei bambini
e vorrei che in futuro usassero le chiavi più spesso di te.
Versò lo zucchero accanto alla mia tazza. Puoi capirlo, chiese.
Annuii.
POICHÉ avevamo paura, Edgar, Kurt, Georg e io stavamo
insieme ogni giorno. Stavamo seduti al tavolo, ma la paura
rimaneva isolata in ogni testa, così come ce la portavamo dietro
quando c’incontravamo. Ridevamo molto, per nasconderla
gli uni agli altri. Perché la paura svicola. Quando si domina il
proprio volto, sguscia fuori nella voce. Se riesci a tenere in
pugno il volto e la voce come se fossero un pezzo inanimato,
sfugge persino dalle dita. Trapassa la pelle. Gira libera, la si
vede negli oggetti che stanno nelle vicinanze.
Vedevamo dove fosse la paura e di chi, perché ci conoscevamo
già da tempo. Spesso non ci potevamo sopportare, perché
eravamo dipendevamo l’uno dall’altro. Dovevamo offenderci.
Tu con la tua smemoratezza sveva. Tu con la tua fretta sveva
o con la tua mania di attendere. Con la tua fissazione sveva
di contare i soldi. Tu con la tua rozzezza. Tu col tuo singhiozzo
svevo o col tuo starnuto, coi tuoi calzini svevi o con le tue
camicie, dicevamo.
Tu, cappuccio di merda svevo, tu testa di cavolo sveva, tu
sacco di stracci svevo. Dovevamo ricavare la rabbia dalle parole
lunghe che ci dividevano. Le inventavamo come imprecazio-
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ni che segnavano la distanza dell’uno dall’altro. Il riso era
duro, bucavamo il dolore. Si faceva presto, perché ci conoscevamo
da dentro. Sapevamo esattamente cosa feriva l’altro. Ci
eccitava vederlo soffrire. Doveva crollare sotto l’amore brutale
e percepire quanto poco resistesse. Ogni ingiuria infilava la
successiva, finché la vittima taceva. E rimaneva così ancora per
un po’. Ancora per un po’ cadevano parole sul suo volto muto,
come cavallette su un campo distrutto.
Nella paura avevamo scrutato l’uno nell’altro, più profondamente
di quanto fosse lecito. In questa lunga confidenza
avevamo bisogno di un’inversione, che arrivò inaspettata.
L’odio poteva calpestare e annientare. In una maggiore vicinanza
poteva falciare l’amore reciproco, perché cresceva come
l’erba lunga. Le scuse ritirarono l’offesa in meno tempo di
quanto si trattenga il respiro.
Lo scontro cercato era sempre intenzionale, solo ciò che
provocava rimaneva un errore. Al termine della rabbia, veniva
dichiarato ogni volta l’amore reciproco, senza inventare alcuna
parola. Il nostro amore c’era sempre. Ma nello scontro
l’amore aveva degli artigli.
Una volta Edgar, quando mi diede la chiave per la casa estiva,
disse: Tu col tuo sorriso svevo. Avvertii gli artigli e non so
come allora la bocca non mi sia caduta dal volto. Guardando
indietro nel tempo, mi sentivo così abbandonata, che non mi
veniva in mente alcuna parola per ribattere. Forse la mia bocca
divenne un pisello maturo. Immaginavo le mie labbra così
secche e sottili, come non le avrei volute. Un sorriso svevo era
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come il padre che non mi potevo scegliere. Come la madre,
che non volevo avere.
Anche allora stavamo seduti al cinema, nell’ultima fila.
Anche allora c’era sullo schermo il capannone di una fabbrica.
Un’operaia tendeva fili di lana su una macchina per
maglieria. Un’altra operaia andò da lei con una mela rossa e
stette a guardarla. L’operaia lisciò i fili sulla macchina e disse:
Credo d’essermi innamorata. Tolse la mela di mano all’altra e
vi diede un morso.
Durante questo film Kurt appoggiò la sua mano sul mio
braccio. Anche allora raccontò un sogno. In questo sogno
c’erano degli uomini da un parrucchiere. Sulla parete in alto
era appesa una lavagna, era un cruciverba. Tutti gli uomini
indicavano con degli appendiabiti gli spazi ancora vuoti e pronunciavano
delle lettere. Il parrucchiere stava sulla scala e
registrava le lettere. Kurt si sedette davanti allo specchio. Gli
uomini dissero: Finché non viene risolto, non ci sarà alcuna
pettinatura. Noi eravamo là da prima. Quando Kurt si alzò e
se ne andò, il parrucchiere gli gridò dietro: Domani si porti il
suo coltello da casa.
Perché sogno questo coltello, mi chiese Kurt in un orecchio,
benché sapesse il perché. Edgar, Georg e Kurt non avevano
più rasoi. Erano spariti dalle loro valigie chiuse.
ERO stata troppo a lungo al fiume con Edgar, Kurt e Georg.
Un’altra volta a spasso, dicevano, come se la passeggiata lungo
il fiume fosse stata superflua. Potevamo ancora cammina-
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re lentamente o rapidamente, andare di soppiatto, o correre a
perdifiato. Andare a spasso, l’avevamo dimenticato.
LA MADRE vuole raccogliere le ultime prugne dal giardino.
Ma un piolo è malfermo. Il nonno va a comprare dei chiodi.
La madre aspetta sotto l’albero. Indossa il grembiule con le
tasche più grandi. Diventa buio.
Quando il nonno sistema sul tavolo le figure degli schacchi,
estraendole dalle tasche del vestito, la nonna che canta dice:
Le prugne aspettano e tu vai a giocare a scacchi dal barbiere.
Il nonno dice: Il barbiere non era a casa, questo mi ha portato
fuori nel campo. Domattina presto vado ad acquistare
chiodi, oggi ero girovago.
CAMMINANDO, Kurt girava le scarpe verso l’interno, gettò
un bastone in acqua e disse:
Ognuno aveva un amico in ogni pezzetto di nuvola
così è infatti con gli amici dove il mondo è pieno di terrore
anche mia madre diceva è del tutto normale
non mettere in discussione gli amici
pensa a cose più serie.
Edgar, Kurt e Georg recitavano continuamente questa
poesia. Nella bodega, nel parco incolto, sul tram o al cinema.
Anche lungo la strada per il barbiere.
Edgar, Kurt e Georg andavano spesso insieme dal barbiere.
Quando entravano dalla porta, il barbiere diceva: Bene, uno
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alla volta, prego, due rossi e uno nero. Kurt e Georg venivano
rasati sempre prima di Edgar.
La poesia stava in uno dei libri della casa estiva. Anch’io
sapevo recitare la poesia a memoria. Ma solo mentalmente, in
modo da regolarmi, quando dovevo essere nel quadrilatero
con le ragazze. Davanti a Edgar, Kurt e Georg mi vergognavo
a recitare la poesia.
La provai una volta nel parco incolto e dopo il secondo verso
non sapevo più andare avanti. Edgar lo balbettò fino alla
fine e io presi dalla terra umida un verme, scostai il bavero
dalla nuca di Edgar e lasciai cadere il verme freddo e rosso
nella sua camicia.
In città c’era sempre un pezzetto di nuvola, o un cielo vuoto.
E le lettere di mia, tua o sua madre, che non avevano nulla
da dire. La poesia nascondeva la sua fredda risata. Questa
si addiceva alla voce di Edgar, Kurt e Georg. Era facile da recitare.
Ma conservare quotidianamente questa fredda risata era
pesante. Forse per questo la poesia doveva essere recitata tanto
spesso.
Non fidarti della falsa amicizia, mi ammonivano Edgar,
Kurt e Georg. Le ragazze del quadrilatero provano tutto,
dicevano loro, esattamente come i ragazzi nella stanza. Con
la domanda quando ritorni, intendono: Per quanto tempo
stai via.
IL CAPITANO Pjele, che si chiamava come il suo cane,
interrogò Edgar, Kurt e Georg a causa di questa poesia.
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Il capitano Pjele aveva questa poesia su un foglio. Lui
appallottolò il foglio, il cane Pjele abbaiò. Kurt dovette aprire
la bocca e il direttore gliela riempì di carta. Kurt dovette mangiare
la poesia. Mangiando, dovette strozzarsi. Il cane Pjele gli
saltò addosso due volte. Gli strappò i pantaloni e gli graffiò le
gambe. Al terzo salto il cane Pjele avrebbe sicuramente morso,
pensò Kurt. Ma il capitano Pjele disse stancamente e con
calma: Pjele, è abbastanza. Il capitano Pjele si lamentò dei
suoi dolori ai reni e disse: Con me sei fortunato.
Edgar dovette stare immobile per un’ora nell’angolo. Il
cane Pjele stava seduto davanti a lui e lo guardava. La sua lingua
penzolava fuori dalla bocca. Pensai tra me, gli pesto sul
muso, in modo che rimanga fermo, disse Edgar. Il cane captò
ciò che pensavo. Non appena nella mano di Edgar si muoveva
un solo dito, non appena respirava più profondamente con
la bocca, in modo che i piedi stessero tranquilli, il cane Pjele
ringhiava. Sarebbe balzato al minimo movimento, disse
Edgar. Non avrei resistito, non avrei saputo dominarmi. Si
sarebbe arrivati a una carneficina.
Prima che Edgar potesse andarsene, il capitano Pjele si
lamentò dei suoi dolori ai reni e il cane Pjele gli leccò le scarpe.
Il capitano Pjele disse: Con me sei fortunato.
Georg dovette stendersi sulla pancia e incrociare le braccia
dietro la schiena. Il cane Pjele annusò la sua tempia e la sua
nuca. Poi gli leccò le mani. Georg non sapeva quanto fosse
durato. Sul tavolo del capitano Pjele c’era un vaso di ciclamini,
disse Georg. Quando Georg entrò dalla porta, il ciclami-
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no aveva solo un bocciolo aperto. Quando poté andarsene, i
boccioli aperti erano due. Il capitano Pjele si lamentò dei suoi
dolori ai reni e disse: Con me sei fortunato.
Il capitano Pjele disse a Edgar, Kurt e Georg, la poesia incita
alla fuga. Dissero: È una vecchia canzone popolare. Il capitano
Pjele disse: Sarebbe stato meglio che l’avesse scritta uno
di voi. Sarebbe stato già grave, ma così lo è ancora di più.
Queste canzoni magari una volta erano canti popolari, allora
erano comunque altri tempi. Il regime borghese-benestante è
stato superato da tempo. Oggi il nostro popolo canta altre
canzoni.
Edgar, Kurt e io seguivamo gli alberi della riva e la conversazione.
Edgar aveva restituito la chiave della casa estiva
all’uomo che non dava mai nell’occhio. Noi c’eravamo spartiti
i libri, le foto e i quaderni.
Da ogni bocca il respiro s’insinuava lentamente nell’aria
fredda. Davanti al nostro volto passò una schiera di animali
volanti. Dissi a Georg: Guarda, la tua bestia del cuore se ne va.
Georg sollevò il mio mento col pollice: Tu con la tua bestia
del cuore sveva, rise. Le sue gocce di saliva mi schizzarono in
faccia. Abbassai lo sguardo e vidi il dito di Georg sotto il mio
mento. Le articolazioni delle sue dita erano bianche e il suo
dito era blu, a causa del freddo. Asciugai le gocce di saliva sulla
guancia. Lola, sputando, aveva chiamato grasso di scimmia lo
sputo nel nerofumo. Per aiutarmi, dissi: Sei di legno.
Le nostre bestie del cuore volarono come topi. Si scrollarono
di dosso il pelo e sparirono nel nulla. Quando parlava-
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mo a lungo, uno dopo l’altro, rimanevano più a lungo nell’aria.
Scrivendo, non dimenticare la data e metti sempre un
capello nella lettera, disse Edgar. Se dentro non c’è, vuol dire
che la lettera è stata aperta.
Singoli capelli, pensai tra me, sui treni, attraverso il Paese.
Un capello scuro di Edgar, uno chiaro, mio. Uno rosso di
Kurt e Georg. Entrambi venivano soprannominati dagli studenti
ragazzi d’oro. Per l’interrogatorio una frase con forbicine
per unghie, disse Kurt, per la perquisizione una frase con
scarpe, per il pedinamento una frase raffreddata. Dopo il titolo
sempre un punto esclamativo, per una minaccia di morte
solo una virgola.
Gli alberi lungo la riva cascavano nell’acqua. Erano salici
capitozzati e salici fragili.
Quando ero bambino, i nomi delle piante conoscevano la
ragione per cui agivo. Questi alberi non sapevano perché
Edgar, Kurt, Georg e io camminassimo lungo il fiume. Tutto,
intorno a noi, sapeva di separazione, nessuno di noi pronunciava
la parola.
UNA BAMBINA ha paura di morire e mangia ancor più
prugne verdi e non sa perché. La bambina sta nel giardino e
ne cerca la ragione tra le piante. Anche le piante, gli steli e le
foglie non capiscono perché la bambina, mangiando, utilizzi
mani e bocca contro la propria vita. Solo i nomi delle piante
sanno il perché: trifoglio d'acqua, erba di lana, cardo da latte,

5.10.09

TORNA MASSIMO CARLOTTO


Torna l'Alligatore nel Nordest di oggi.
Nelle librerie "L'AMORE DEL BANDITO", un noir d'inchiesta pieno di ricatti, agguati e sfide.
2004. Dall’Istituto di medicina legale di Padova spariscono 44 chili di droga pesante. Criminalità organizzata da un lato e forze dell’ordine dall’altro si scatenano. L’Alligatore riceve pressioni per indagare e scoprire l’identità dei responsabili del furto. L’investigatore senza licenza non ci sta ma a certa gente non basta dire di no... 2006. Due anni più tardi scompare Sylvie, la donna di Beniamino Rossini, la danzatrice del ventre franco-algerina che lui aveva conosciuto anni prima in un night del Nordest. Il vecchio gangster non si dà pace e la cerca ovunque. Ben presto l’Alligatore, Beniamino Rossini e Max la Memoria si ritrovano braccati da un nemico misterioso che li ricatta e li costringe a entrare in un gioco mortale... 2009. La storia non è ancora finita. E l’Alligatore e i suoi amici sono ancora in pericolo e attendono la prossima mossa del loro temibile avversario. Una storia di malavita, un noir dove si intrecciano i destini di vecchi e nuovi gangster in un mondo dove le regole di un tempo non esistono più. Solo il passato torna sempre a chiedere il conto.